Levi, Zancan, Vallora, Orengo, Fanelli, Brondolo, Corradini, Mantovani, Schialvino
“…la pittrice che ha studiato all’Accademia di Belle arti di Torino, operava da molti anni nel chiuso del suo studio fino a quando il mercante Pino Curletti l’ha “costretta”, alla fine dell’anno scorso, a esporre nella sua galleria La Parisina. Anna Lequio lavora esclusivamente con l’acquarello che usa però come se fosse una materia più spessa. I risultati di queste composizioni intimistiche, di interni, sono vivamente interessanti…”
P. Levi, A. Tissi 1989, dal supplemento Donna Capital n. 7
“…Anna Lequio porge solo angoli d’interni, in un intimistico ricamo, a cui fa da contrappunto un inquieto contorno di slabbrature cromatiche. In queste microvisioni si sente il calore della presenza umana, senza che con questo appaiano figure…”
P. Levi, da la Repubblica, 21 novembre 1992
“…l’oggetto d’arte non è un concetto tangibile, come si crede. E’, in realtà, uno stato d’anima onirico che si fa lentamente immaginare nell’anima dell’artista, e riflesso utopico in chi ne percepisce il messaggio.”
P. Levi, 1995
“…la tecnica è meravigliosa e paziente, ma i risultati sono di poesia e di gioioso inno alla vita, di cui si colgono i semplici piaceri “contemplativi” di ogni giorno: guardare un prato, un albero, un giardino, un interno con un bel tappeto.”
B. Zancan, da Torino Sette, dicembre 1989
Ombre di casa
“…che cosa mi avrà mai attratto, in quegli acquerelli, ancora per me senza nome o storia, accatastati, inerti e inesposti, su, nelle travagliate “soffitte” di lavoro della galleria di Antonia Jannone, frammenti spezzati di immagine? Che cosa mai avrà così imperiosamente catturato il mio sguardo distratto, lumeggiando sino a farmi piegare il ginocchio, non in religiosa devozione, ma come assalito dalla malattia del collezionismo, in un qualsiasi retrobottega di brocanteur? Sicuramente quella luce spenta, splendente di verde muffito, quell’odore di rispettabile palude, quell’acqua di luce che oggi mi fa rovesciare qualche bicchierino di ammirate parole occupandomi di questa per me inconosciuta signora Anna Lequio.
E nell’orecchio mi si ricanta come un limerick di Lear: ”Anna Lequio, liquidi deliqui”.
Si acqua di luce: perché ridando fiato alla più autentica etimologia del termine acquerello – più acqua che colore – Anna Lequio dipinge più che altro con l’acqua, l’acqua sporca e romanzata (anzi, raccontata, perché è artista più da circospetta brevi novelle che non grandi affreschi narrativi) quell’acqua usata della vita, che si spreca ogni giorno senza coagularsi in storia, in intreccio.”
Marco Vallora, 1991
“…sono tutti luoghi di riflessione, di pensamento (la “camera tutta per sé” di Virginia Woolf): lampade di lettura, seggiole che attendono la Signora, pianoforti dentati sullo fondo, tendaggi, dischiusi sulla notte come frutti spaccati. “Come se ogni punto sapesse degli altri. Tutto partecipa”, in queste “nature morte meravigliosamente occupate di se stesse”, in queste stanze che sono esse stesse nature morte: imbalsamante nel velame del silenzio…”
Marco Vallora, 1998
“…il modo di vedere il mondo in Anna Lequio è antico, amniotico. E’ come se le acque non fossero ancora ritirate dalla terra ferma o come se il suo sguardo fosse ancora di placenta, una retina permanentemente sott’acqua…”
Nico Orengo, 1992
“…pittura per velature, certo, come vogliono i manuali; ma con concrezioni crostose e materiche (ossimoro per l’acquerellista tradizionale) che si depositano, saturi, ai bordi delle macchie dilaganti. Acquerello, ancora come pittura d’ombre, di macchie pilotate che nella loro vibrazione strutturata concorrono alla definizione di altri oggetti, altre presenze e altri colori: saranno le variegate densità del bruno e del blu incupito dal bistro i colori dell’inconscio? Nessuna gara, qui, con la mimesi: piuttosto, l’evocazione, attraverso una sorta di automatismo controllato, di atmosfere percepite psicologicamente prima ancora che otticamente…”
Franco Fanelli, 2000
Razo
“Anna ha vissuto la sua infanzia tra due acque, quelle magmatiche e perse della Bormida e quelle cerulee e diacce della Totorba: la sua “pargoletta mano”, levata dal poggio aereo su cui sorge la bella villa cinquecentesca, si tendeva a quelle del ruscello e del fiume, alla curiosa scoperta della bellezza e del male. Le strigi non ignorarono quel gesto e quegli atti, tesi ad impadronirsi di un mondo e dei suoi segreti. L’incanto si mutò in lotta. Oggi, l’esito e il miracolo sono sotto gli occhi di tutti: le chiare acque del ruscello vesimese hanno riscattato quelle del fiume maledetto; e la mano di Anna, alto il suo studiolo sul grande fiume, continua a operare le alchimie che i suoi pennelli ci consegnano. La collina torinese, benefica e beneficata, avvolge e tutela il prodigio.”
Riccardo Brondolo, 2002
“…Anche questi interni sono il luogo in cui l’occhio riposa, accarezzando con lo sguardo gli oggetti amati, o accarezzando con gli occhi i pensieri che il rigo trasmette nello scorrere leggero dei segni tipografici. E’ il luogo, dove il lettore vuole rifugiarsi con il libro appena acquistato, attraversando veloce la città nel tragitto tra la libreria e la casa, per aprirlo, sfogliarlo, accarezzarlo con le mani, certo di un’apertura d’orizzonte contenuta nelle parole. Metafora si diceva della vita e dell’arte, unico riposo per l’occhio affaticato di un mondo convulso…
…Difficile scambiare l’interno di Anna Lequio per un prelievo, anche se l’autrice non tradisce mai lo spirito rappresentativo del luogo. Forse ne sottolinea gli aspetti meno apparenti, per trascinarci dove il pensiero assume e fa sua la contraddizione dell’esistere. Come quando distende le sue straordinarie figure nude sul letto; figure dolcissime, interpreti della fragilità e della leggerezza, conquistata nella pienezza di sé: troppo facile la leggerezza delle ali di libellula. Anna Lequio cerca la leggerezza nella beltà concreta del corpo femminile, sottolineato nella sua naturale carica di sensualità…”
Marco Corradini, 2004
Ritratto
“…Così il grande ritrattista riconoscerebbe l’identità essenziale, l’uno nel molteplice. Salvo che l’uno è accessibile solo attraverso la messa a fuoco del particolare unico. Il ritratto mira ad una presenza esclusiva e definitiva che vada oltre l’istanza accidentale. Perciò vi si avverte, più che in qualsivoglia altro genere di rappresentazione, un processo di transustanziazione, per “molecolare” sostituzione traumatica, veloce o lentissima. “Fisiognomica”, quella del vero ritrattista, non semplice illustrazione fisionomica, ha proposto qualcuno, speculatore d’anime o filosofo, non senza sospetto d’alcunché di demoniaco ( perché qualcosa di demoniaco ci deve pur essere in questo giocare fra l’uno e i molti).”
Pino Mantovani, 2006
“…non è facile dipingere così, danzando sul filo sottile di quella preziosa tecnica dei lumi che generosamente contribuisce a elevare a una raffinatezza estrema: rasenta l’opera al nero ed evita la maniera, corteggia il virtuosismo e sfugge il déja vu; apre la strada a processi inconsueti, di chimica e fisica, trasforma la macchia in segno, cadenza i tocchi del pennello in ideogrammi colorati, dipana racconti che riavvolge con la scansione delle tinte; alchimizza pigmenti liquidi e condensa terre burrose, sovrappone la materia alla velatura e lava ancora i margini con una cascata di tulle rorido, fondendo umidità che atteggiano a quinta e cornice, racchiudendo nello scrigno, che il labirinto dei coaguli protegge, il documento prezioso del diario della calma e dello sconcerto.”
Gianfranco Schialvino
Hanno scritto di lei numerosi critici di riviste e importanti quotidiani italiani ed esteri tra cui si ricordano:
Torino sette, B. Zancan, dicembre 1992
Architektur & wohnen, Elke Von Radziewsky, gennaio 1992
Casa & Country, R.Tabozzi, 1995
La Stampa, M. Vallora, settembre 1997
Correio Braziliense, Joana Maciel, settembre 1997
Elle Decor, Laura Maggi, gennaio/ febbraio 1997
Repubblica, suppl. viaggi n. 354, Rory Cappelli, 2005
Specchio n. 450, M.Vallora, 2005
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